La Corte d’Appello di Venezia rigetta un MAE proveniente dalla Romania
Il mandato d’arresto europeo (MAE) è uno degli istituti mediante il quale viene attuata, in ambito comunitario, la cooperazione internazionale in materia penale tra Stati membri dell’Unione.
Per quanto riguarda l’Italia è la Legge n. 69 / 2005 a dettare le disposizioni di recepimento nell’ordinamento italiano della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio d’Europa del 13.06.2002 istitutiva del MAE.
In sostanza, il mandato di arresto emesso dall’Autorità Giudiziaria di uno Stato membro (cd. stato richiedente) può essere eseguito in uno qualsiasi degli altri Stati membri dell’Unione che, quando richiesti, devono provvedere all’arresto della persona destinataria del MAE ed alla sua consegna allo Stato richiedente.
Ciò sia a fini di custodia cautelare in carcere, sia per l’esecuzione della pena comminata da una sentenza definitiva.
Tale disciplina presuppone il rispetto, da parte di tutti i paesi UE, dei principi e delle garanzie previste dal diritto comunitario a tutela dell’indagato / condannato (cd. presunzione di protezione equivalente).
D’altro canto, quando una persona viene privata della propria libertà e ristretta in carcere, ciò deve avvenire nel rispetto dei cd. diritti fondamentali, tra i quali spiccano il diritto di difesa, il diritto ad un processo equo e, soprattutto, il diritto a non essere sottoposti durante la carcerazione alla tortura e/o a trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo).
Con la sentenza Aranyosi – Calderaru del 2016 per la prima volta la CEDU ha stabilito che l’esecuzione di un MAE deve essere rinviata / rifiutata se esiste un rischio reale che la persona ricercata sia sottoposta a trattamenti inumani e degradanti nello stato emittente.
Tale sentenza detta anche i criteri da seguire per individuare e valutare la sussistenza di un tale rischio.
Con la sentenza Bivolaru e Moldovan del 2021, invece, la CEDU ha affermato per la prima volta che la sussistenza del generale rischio di subire trattamenti inumani e degranti nello stato emittente il MAE può essere accertata anche sulla base della propria giurisprudenza.
Inoltre, in questa sentenza la CEDU per la prima volta ha confutato la “presunzione di protezione equivalente” su cui si basa la normativa MAE. In forza di tale presunzione (nota anche come “presunzione del Bosforo”) quando uno Stato attua un obbligo derivante da un’organizzazione sovranazionale di cui è parte (come l’UE) si presume che agisca nel rispetto della Convenzione Europea dei Diritti Umani e della legislazione comunitaria.
La sentenza afferma che tale presunzione può essere disapplicata in caso di grave violazione di un diritto protetto dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani.
Ciò significa, nell’ambito del riconoscimento del MAE, che l’Autorità Giudiziaria del paese di esecuzione ha l’obbligo, ai sensi della CEDU, di valutare tale doglianza e non può astenersi dal farlo per il solo motivo che essa sta applicando il diritto della UE (che si presume, appunto, rispettoso dei diritti e dei principi dettati dalla CEDU).
E’, quindi, sempre necessaria una valutazione specifica del caso concreto perchè la tutela dei diritti fondamentali protetti dalla CEDU prevale sulla “presunzione di protezione equivalente”, ossia sulla presunzione che tutti i paese membri della UE quando applicano il diritto Ue garantiscono ai cittadini comunitari il medesimo livello di tutela dei diritti fondamentali.
La sentenza Bivolaru e Moldovan contiene un dettagliato excursus di tutta la normativa e la giurisprudenza CEDU precedente in materia.
Si noti, infine, che entrambe le sentenze riguardano MAE emessi dalla Romania rispettivamente nei confronti della Germania (sentenza Aranyosi – Caldedaru) e della Francia (sentenza Bivolaru e Moldovan).
In entrambi i casi la richiesta di consegna è stata rifiutata a causa della condizione delle carceri rumene.
La materia, quindi, si presenta particolarmente complessa stante la costante tensione tra i principi fondamentali dettati dalla legislazione comunitaria a tutela dei diritti umani e l’attuazione di essi nei singoli Stati.
In tale contesto, si inserisce la vicenda decisa recentemente dalla Corte d’Appello di Venezia che, con sentenza n. 6***/2024 del ***.10.2024 ha respinto il MAE emesso dalla Romania nei confronti di un cittadino italiano accusato di aver costituito insieme ad altri soggetti (tra cui altri due italiani anch’essi destinatari di richiesta di custodia cautelare) un gruppo criminale organizzato finalizzato all’importazione nella UE attraverso la Romania di prodotti fitosanitari provenienti dalla Cina ed asseritamente contraffatti.
Venivano, inoltre, contestati reati doganali e di falso nonchè l’importazione di prodotti pericolosi e/o vietati per la salute e l’ambiente.
La legge rumena punisce tali reati, considerati molto gravi, con la reclusione fino a 15 anni.
La vicenda esaminata dalla Corte d’Appello di Venezia è complicata anche dalla contemporanea pendenza in Italia nei confronti delle stesse persone di un altro procedimento penale avente ad oggetto gli stessi fatti e, quasi, le stesse fattispecie di reato.
Tanto in Italia che in Romania, inoltre, risultano emesse misure cautelari personali e reali, anche se nel procedimento italiano, a differenza di quello rumeno, non è mai stata richiesta alcuna misura privativa della libertà personale degli indagati.
Ancora, la richiesta di custodia cautelare avanzata dal Pubblico Ministero in Romania è stata dapprima rigettata dal competente Tribunale di quel paese. Decisione, poi, rovesciata in Corte d’Appello.
La decisione del Tribunale rumeno è particolarmente significativa perchè sottolinea l’insussistenza dell’unica esigenza cautelare indicata dal Pubblico Ministero (il pericolo di reiterazione del reato) e, soprattutto, poichè esclude che il diritto al silenzio di cui gli indagati si sono avvalsi in sede di interrogatorio delegato in Italia non possa essere considerato un ostacolo al prosieguo del procedimento, ma sia una loro legittima scelta direttamente discendente dai diritti fondamentali riconosciuti e tutelati dal diritto comunitario.
In sintesi, osserva il Tribunale rumeno, il diritto al silenzio dell’indagato in fase di indagini non può essere utilizzato per ottenerne la carcerazione preventiva.
Per tutte tali ragioni, la difesa si è opposta alla consegna dell’indagato alla Romania.
La Corte d’Appello di Venezia in sede di convalida dell’arresto effettuato in esecuzione del MAE, ha immediatamente scarcerato l’indagato per l’assoluta insussistenza di esigenze cautelari, in particolare del pericolo di fuga.
Poi, all’esito dell’udienza di discussione, ha respinto il MAE sul presupposto che la condotta contestata all’indagato risulta commessa in buona parte in Italia.
Ai sensi dell’art. 17 comma 4 della L. 69/2005, infatti, la Corte d’Appello pronuncia sentenza con cui accoglie il MAE e dispone la consegna della persona ricercata allo stato straniero richiedente “…in assenza di cause ostative…”.
Nel caso di specie la Corte ha ritenuto sussistente la causa ostativa previste dall’ art. 18 bis 2 comma 1 lettera a) in forza del quale la Corte d’Appello può rifiutare la consegna “…se il mandato di arresto europeo riguarda reati che dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo territorio…”.
Ciò sulla scorta della recentissima sentenza (n. 23941/2023) della Corte di Cassazione in forza della quale ai fini della sussistenza del motivo di rifiuto previsto dall’art. 18 bis 2 comma 1 lettera a) un reato si considera commesso in tutto o in parte in Italia quando “… nel territorio dello Stato si sia verificato anche un solo frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, quindi un qualsiasi atto dell’iter crimisono, purchè lo stesso sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella commessa nel territorio estero”.
Gli altri motivi di diniego alla consegna sollevati dalla difesa non sono stati affrontati perchè assorbiti.
L’avv. Rebellato ha assunto in questa vicenda la difesa dell’indagato.