Il diritto al tempo del coronavirus: contagio, infortunio, responsabilità del datore di lavoro – ulteriori chiarimenti
In un precedente post è stata affrontata la tematica, molto discussa a livello mediatico, del contagio da Sars-CoV-2 quale infortunio sul lavoro.
La questione era stata disciplinata dal legislatore nell’art. 42 del DL 18/2020 del 17.03.2020 poi convertito nella Legge n. 22 del 24 aprile 2020.
Numerosi organi di stampa ed associazioni di categoria datoriali, però, ritenevano che la norma, equiparando la causa virulenta alla causa violenta quale fonte di tutela antinfortunistica, estendesse anche l’ambito della responsabilità civile e penale del datore di lavoro.
Come spiegato nel post precedente, tale preoccupazione è infondata perchè l’equiparazione della causa virulenta alla causa violenta non è una novità in ambito INAIL in quanto le malattie infettive sono equiparate alla causa violenta dal 1995 (cfr. Circolare n. 74 del 23.11.1995).
Inoltre, l’INAIL stessa, con la circolare n. 13 del 03 aprile 2020 aveva fatto chiarezza.
Le polemiche e le preoccupazioni, però, non sono cessate.
Di conseguenza, l’INAIL ha emesso una nuova circolare, la n. 22 del 20 maggio 2020, con cui ha precisato nuovamente che:
“… L’art. 42, comma 2, del citato decreto-legge 17 marzo 2020, n. 181, ha anzitutto chiarito che l’infezione da SARS-Cov-2, come accade per tutte le infezioni da agenti biologici se contratte in occasione di lavoro, è tutelata dall’Inail quale infortunio sul lavoro e ciò anche nella situazione eccezionale di pandemia causata da un diffuso rischio di contagio in tutta la popolazione.
Si tratta della riaffermazione di principi vigenti da decenni, come già richiamati dalla circolare 3 aprile 2020, n. 13, nell’ambito della disciplina speciale infortunistica, confermati dalla scienza medico-legale e dalla giurisprudenza di legittimità in materia di patologie causate da agenti biologici.
Le patologie infettive (vale per il COVID-19, così come, per esempio, per l’epatite, la brucellosi, l’AIDS e il tetano) contratte in occasione di lavoro sono da sempre, infatti, inquadrate e trattate come infortunio sul lavoro poiché la causa virulenta viene equiparata alla causa violenta propria dell’infortunio, anche quando i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo.
In secondo luogo la norma dispone che l’indennità per inabilità temporanea assoluta copre anche il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria (ovviamente sempre che il contagio sia riconducibile all’attività lavorativa), con la conseguente astensione dal lavoro.
La disposizione, seppure dettata in un momento emergenziale, in realtà ha dato seguito a un principio già affermato dalla giurisprudenza, secondo cui l’impedimento presupposto dall’art. 68 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n.1124 ai fini della attribuzione della indennità di inabilità temporanea assoluta, comprende, oltre alla fisica impossibilità della prestazione lavorativa, anche la sua incompatibilità con le esigenze terapeutiche e di profilassi del lavoratore.
In terzo luogo è stato espressamente previsto che gli oneri degli eventi infortunistici del contagio non incidono sull’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico, ma sono posti carico della gestione assicurativa nel suo complesso, a tariffa immutata, e quindi non comportano maggiori oneri per le imprese.
In altri termini, la scelta operata con il citato articolo 42 è stata quella dell’esclusione totale di qualsiasi incidenza degli infortuni da COVID-19 in occasione di lavoro sulla misura del premio pagato dal singolo datore di lavoro, ciò in quanto tali eventi sono stati a priori ritenuti frutto di fattori di rischio non direttamente e pienamente controllabili dal datore di lavoro al pari degli infortuni in itinere…”.
Di conseguenza, la circolare ha fatto ulteriore chiarezza anche riguardo le modalità di accertamento dell’infortunio sul lavoro da contagio da SARS-CoV-2 precisando che non sussiste alcun automatismo tra il contagio e l’applicazione della tutela antinfortunistica, ma si deve fare riferimento alle linee guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare n. 74 del 23 novembre 1975.
In particolare, si deve partire dal presupposto che nelle malattie infettive e parassitarie è difficile o impossibile stabilire il momento esatto del contagio.
Quindi, sulla base delle linee guida e del consolidato orientamento giurisprudenziale cui esse fanno riferimento, si deve procedere all’accertamento in base a due “…principi fondamentali:
- deve essere considerata causa violenta di infortunio sul lavoro anche l’azione di fattori microbici e virali che penetrando nell’organismo umano ne determinano l’alterazione dell’equilibrio anatomico-fisiologico, sempre che tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa;
- la mancata dimostrazione dell’episodio specifico di penetrazione nell’organismo del fattore patogeno non può ritenersi preclusiva della ammissione alla tutela, essendo giustificato ritenere raggiunta la prova dell’avvenuto contagio per motivi professionali quando, anche attraverso presunzioni, si giunga a stabilire che l’evento infettante si è verificato in relazione con l’attività lavorativa. E perché si abbia una presunzione correttamente applicabile non occorre che i fatti su cui essa si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile del fatto noto, bastando che il primo possa essere desunto dal secondo come conseguenza ragionevole, probabile e verosimile secondo un criterio di normalità (cosiddetta “presunzione semplice”).
Dai richiamati principi, in forza dei quali si procede alla valutazione dei fatti allegati non può desumersi alcun automatismo ai fini dell’ammissione a tutela dei casi denunciati.
Occorre sempre accertare la sussistenza dei fatti noti, cioè di indizi gravi, precisi e concordanti sui quali deve fondarsi la presunzione semplice di origine professionale, ferma restando la possibilità di prova contraria a carico dell’Istituto.
In altri termini, la presunzione semplice che – si ribadisce- ammette sempre la prova contraria, presuppone comunque l’accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro (le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, le indagini circa i tempi di comparsa delle infezioni, ecc.).
In tale contesto, l’Istituto valuta tutti gli elementi acquisiti d’ufficio, quelli forniti dal lavoratore nonché quelli prodotti dal datore di lavoro, in sede di invio della denuncia d’infortunio contenente tutti gli elementi utili sulle cause e circostanze dell’evento denunciato.
Il riconoscimento dell’origine professionale del contagio, si fonda in conclusione, su un giudizio di ragionevole probabilità ed è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine alla imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possano essere stati causa del contagio. … “.
Quanto alla responsabilità del datore di lavoro, la circolare n. 22 precisa che:
“… Non possono, perciò, confondersi i presupposti per l’erogazione di un indennizzo Inail (basti pensare a un infortunio in “occasione di lavoro” che è indennizzato anche se avvenuto per caso fortuito o per colpa esclusiva del lavoratore), con i presupposti per la responsabilità penale e civile che devono essere rigorosamente accertati con criteri diversi da quelli previsti per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative.
In questi, infatti, oltre alla già citata rigorosa prova del nesso di causalità, occorre anche quella dell’imputabilità quantomeno a titolo di colpa della condotta tenuta dal datore di lavoro.
Il riconoscimento cioè del diritto alle prestazioni da parte dell’Istituto non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale, considerata la vigenza del principio di presunzione di innocenza nonché dell’onere della prova a carico del Pubblico Ministero.
Così come neanche in sede civile l’ammissione a tutela assicurativa di un evento di contagio potrebbe rilevare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento della colpa di quest’ultimo nella determinazione dell’evento.
La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che l’articolo 2087 cod. civ. non configura, infatti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.
Né può desumersi dall’indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero”, quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile, neanche potendosi ragionevolmente pretendere l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psico-fisica del lavoratore, ciò in quanto, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile […]; non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto (Cass. n.3282/2020).
Pertanto la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n.33.
Il rispetto delle misure di contenimento, se sufficiente a escludere la responsabilità civile del datore di lavoro, non è certo bastevole per invocare la mancata tutela infortunistica nei casi di contagio da Sars-Cov-2, non essendo possibile pretendere negli ambienti di lavoro il rischio zero. Circostanza questa che ancora una volta porta a sottolineare l’indipendenza logico-giuridica del piano assicurativo da quello giudiziario...”.
Ancora, la circolare n. 22, quanto all‘azione di regresso dell’INAIL nei confronti del datore di lavoro (altro tema scottante dal punto di vista mediatico), ha precisato che:
“… L’attivazione dell’azione di regresso, non essendo più subordinata alla sentenza penale di condanna dopo l’elisione da parte della Corte Costituzionale della pregiudizialità penale, presuppone, come è noto, la configurabilità del reato perseguibile d’ufficio a carico del datore di lavoro o di altra persona del cui operato egli sia tenuto a rispondere a norma del codice civile.
Pertanto, così come il giudizio di ragionevole probabilità in tema di nesso causale, che presiede al riconoscimento delle prestazioni assicurative in caso di contagio da malattie infettive, non è utilizzabile in sede penale o civile, l’attivazione dell’azione di regresso da parte dell’Istituto non può basarsi sul semplice riconoscimento dell’infezione da Sars- Cov-2.
La Corte di Cassazione a SS.UU. ha affermato che nel reato colposo omissivo improprio, quale è quello ipotizzabile nella fattispecie, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo…” e che “l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio ( Sez. U, n.30328, del 10 luglio 2002-dep 11 settembre 202).
L’attivazione dell’azione di regresso presuppone, inoltre, anche l’imputabilità a titolo, quantomeno, di colpa, della condotta causativa del danno.
In assenza di una comprovata violazione, da parte del datore di lavoro, pertanto, delle misure di contenimento del rischio di contagio di cui ai protocolli o alle linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n.33, sarebbe molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavoro.
Al fine di garantire l’omogeneità della trattazione e una attenta gestione dell’invio delle diffide, le Avvocature territoriali dell’Istituto avranno cura di trasmettere all’Avvocatura generale le pratiche riguardanti possibili azioni di regresso nei casi di infortunio sul lavoro da COVID-19, accompagnate da una breve relazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti richiesti...” .
Nonostante ciò, le organizzazioni dei datori di lavoro hanno continuato a manifestare perplessità sulla questione sino all’intervento del Legislatore che ha ribadito i principi e le argomentazioni contenuti nelle circolari INAIL in un’apposita norma – l’art. 29 bis inserito in sede di conversione del DL. 8 aprile 2020 n. 23 (cd. decreto Liquidità) dalla Legge 5 giugno 2020 n. 40 – rubricata “Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19” e così formulata:
“comma 1.
Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’art. 1, comma 14, d.l. 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Risulta, quindi, sancito anche dalla legge che la responsabilità del datore di lavoro non deriva automaticamente dall’applicazione della tutela antinfortunistica e che il datore di lavoro è esente da responsabilità se adotta correttamente le misure di sicurezza previste dalla legge e dagli accordi collettivi.
Per ulteriori suggerimenti pratici quanto alle cautele che il datore di lavoro deve adottare si rinvia alla parte finale del post precedente.