Ancora sulla “differenza prezzo”
Tribunale di Milano, sentenza n. 10618/2015
Il Tribunale di Milano, con la sentenza in oggetto, passata in giudicato, si è pronunciato nuovamente sulla questione del risarcimento danno da cd. “differenza prezzo” quantificata in base agli “acquisti in danno” previsti nelle condizioni generali di contratto di borsa merci e dagli artt. 1515-1516 c.c.
La presente sentenza conferma le statuizioni della precedente pronuncia n. 10104/2015.
In punto di diritto la sentenza va segnalata per aver affrontato le seguenti problematiche:
a) natura rituale o irrituale dell’arbitrato
Osserva il Tribunale che per stabilire se si verta in tema di arbitrato rituale o irrituale è sempre necessario interpretare la clausola compromissoria alla stregua dei canoni ermeneutici ricavabili dall’art. 1362 c.c., ossia non è sufficiente il dato letterale, ma va presa in considerazione anche la comune intenzione delle parti ed il loro comportamento complessivo, anche successivo alla conclusione del contratto in cui la clausola è inserita (cfr. Cass. 26135/2013).
Nel caso di specie, afferma il Tribunale, si deve concludere per la natura irrituale dell’arbitrato perchè a ciò conduce non solo il dato letterale, ossia la formulazione della clausola, ma anche e soprattutto il modello procedimentale previsto dal regolamento arbitrale richiamato dalla clausola e la peculiarità delle questioni – sostanzialmente tecniche ed estimative – su cui gli arbitri sono chiamati a pronunciarsi.
b) nozione di arbitrato irrituale
Precisa il Tribunale che l’arbitrato irrituale si configura quale “strumento di risoluzione delle controversie imperniato sull’affidamento a terzi del compito di ricercare una composizione amichevole riconducibile alla volontà delle parti, e pertanto ha natura negoziale e il relativo lodo (cfr. Cass. 6830/2014) con l’entrata in vigore del DLGS 40/2006) è impugnabile in base alle norme ordinarie sulla competenza e con l’osservanza del doppio grado di giurisdizione, anche per far valere i vizi di manifestazione della volontà negoziale (cfr. Cass. 25285/2013).” Per l’effetto a tale fattispecie trova pacifica applicazione l’art. 808 ter cpc.
c) la violazione dell’art. 808 ter secondo comma n. 1 cpc
Il Tribunale accoglie due dei motivi di annullamento dei lodi formulati dalla venditrice. Il primo riguarda la cd. pronuncia “ultra petita”, ossia il fatto che la decisione arbitrale sia andata oltre i limiti fissati dalla clausola arbitrale.
Parte venditrice, infatti, lamentava il fatto che il collegio arbitrale di primo grado avesse liquidato il danno in via equitativa senza tener conto del risultato degli acquisti coattivi fatti celebrare dalla compratrice e posti a fondamento della domanda risarcitoria formulata in atto introduttivo del giudizio.
Osserva il Tribunale che la compratrice, pur non avendo nella propria domanda espressamente specificato il parametro da porre a base del calcolo della differenza prezzo (ossia pur non avendo fatto chiaro riferimento al listino di borsa o al risultato degli acquisti in danno) aveva espressamente ammesso di aver fatto celebrare questi ultimi e soprattutto aveva chiesto al collegio arbitrale di accertare “la congruità di quanto già addebitato alla controparte in termini di differenze di prezzo così come scaturite dagli acquisti coattivi”. Per tale ragione, conclude il Tribunale, si deve concludere che parte compratrice abbia voluto avvalersi del criterio risarcitorio costituito dal risultato degli acquisti in danno e non rimettere al collegio arbitrale la quantificazione dello stesso sulla base dei listini di borsa.
Per l’effetto, la decisione del collegio arbitrale di primo grado, che quantificò la differenza prezzo in via equitativa e senza tener conto degli acquisti in danno, è viziata da ultrapetizione ed è quindi lesiva dell’art. 808 ter secondo comma n. 1 cpc.
Inoltre, osserva il Tribunale, il collegio arbitrale di primo grado ha determinato il risarcimento (nella misura di 199.648,00 euro) oltre interessi “senza alcun ragionevole riferimento alle specifiche pattuizioni fra le parti e comunque senza puntuale indicazione dei prezzi accertati alla data considerata, senza identificazione degli operatori asseritamente consultati e senza menzionare alcun concreto e riscontrabile parametro che potesse essere verificato in modo oggettivo”.
In altre parole, non solo il collegio arbitrale di primo grado è andato oltre il gli artt. 1515-1516-1518 c.c. determinato dalle domande delle parti e dalla clausola arbitrale, ma l’ha anche fatto abusando del potere equitativo cui si è richiamato per giustificare la propria decisione, sconfinando così nell’arbitrio.
Inoltre, e questo è il punto fondamentale della vicenda, il Tribunale ha respinto la tesi della compratrice di aver fatto richiamo, nella propria domanda arbitrale, non specificatamente agli acquisti in danno, ma ad uno qualsiasi dei criteri risarcitori previsti dalle condizioni generali di contratto lasciandone la scelta al collegio arbitrale.
Il rigetto di tale tesi è fondato sul fatto che “…la tesi della convenuta … è in palese ed irrimediabile contrasto non soltanto con il contenuto dei quesiti da lei stessa proposti agli arbitri, ma soprattutto con l’effettiva celebrazione degli acquisti in danno, acquisti effettuati, evidentemente, per scelta della venditrice, da cui discende necessariamente l’applicazione, al caso in esame dell’art. XIX comma 1 n. 3 delle condizioni generali di contratto”, ossia l’applicazione del criterio di quantificazione in forza del quale il risarcimento si identifica nella differenza prezzo scaturente dagli acquisti in danno (=differenza tra il prezzo contrattuale ed il prezzo di aggiudicazione) e non in quella scaturente dal listino di borsa (=differenza tra il prezzo contrattuale ed il prezzo di listino nel giorno dell’aggiudicazione).
d) Acquisto in danno, risarcimento ed adempimento coattivo in dottrina e giurisprudenza.
Il substrato giuridico della decisione del Tribunale.
La suesposta argomentazione si fonda su un consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale così riassumibile:
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l’art. XIX cond.gen.contratto è una clausola contrattuale che regola la fase di inadempimento e sancisce quali siano le azioni spettanti alla parte adempiente. La disciplina dettata da tale norma ricalca, in tutto e per tutto, le norme dettate dagli artt. 1515-1516-1518 c.c.
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ciò non significa, però, osserva il Tribunale, che tali norme trovino diretta applicazione alla fattispecie concreta in esame ex art. 1374 c.c. perchè l’art. XIX contiene una disciplina completa e, quindi, non necessita di integrazione. Ma ciò non esclude che, trattandosi di regolamentazioni uguali dello stesso fenomeno, non siano soggette ai medesimi principi.
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L’orientamento dottrinale e giurisprudenziale prevalente considera il criterio risarcitorio posto dall’art. 1518 c.c. una “presunzione assoluta” di danno. Quindi, la sua applicazione rende il risarcimento dovuto a prescindere dalla prova del danno effettivamente subito e senza che parte inadempiente possa offrire la prova del contrario (cfr. Cass. 1210/1966, n. 3071/1960, n. 1429/1982, n. 6427/1981). La norma dettata dall’art. 1518 c.c. è eccezionale (cfr. Cass. 3614/1994 e 5222/1983) e si applica solo in caso di risoluzione per inadempimento del contratto.
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Gli artt. 1515 e 1516 c.c., invece, prevedono forme di “esecuzione coattiva” meglio definita in dottrina e giurisprudenza “autotutela”. Cfr. Cass. 5222/1983, n. 2444/1968.
In dottrina, recentemente, F. Bocchini, La vendita di cose mobili, art. 1510-1536, in Commentario Schlesinger, sub art. 1515-1516, pagg. 239ss nonchè Buonocore, Codice della Vendita, sub art. 1515-1516, pag. 858-860 che definisce così (par. 4) la “compera” in danno:
“il rimedio ex art. 1516 c.c. consente al compratore, in caso di inadempimento del venditore, di procedere attraverso soggetti individuati dalla norma all’acquisto di una eguale quantità di cose del medesimo genere di quello oggetto della compravendita originaria, senza necessità di un titolo esecutivo e con lo scopo di addossare al venditore le maggiori spese della ricompera…”.
Altra dottrina (Pescatore, La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina, sub art. 1516, par. 1), parla di:
“… una particolare forma di esecuzione specifica dell’obbligazione contrattuale attinente, quindi, alla vicenda attuativa e non risolutiva del rapporto…”. -
nell’ipotesi prevista dagli artt. 1515/1516 c.c. il danno si identifica con l’esborso subito dalla parte per procurarsi la merce sul mercato. Ergo, in questi casi non viene applicata la presunzione dettata dall’art. 1518 c.c.
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Ne consegue che il danno quantificato ex artt. 1515-1516 c.c. è “effettivo”, cioè accertato e liquidato in base alle regole ordinarie (artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 2697 c.c.).
Esso, quindi, deve essere “conseguenza immediate e diretta” dell’inadempimento (art. 1218 – 1223 c.c.) nonchè rigorosamente provato (art. 2697 c.c.) dal danneggiato.
In concreto, il danneggiato adempie al proprio onere probatorio facendo celebrare l’acquisto/vendita in danno ed eseguendo il contratto di compravendita che ne deriva, ossia dimostrando di aver subito un effettivo pregiudizio economico per procurarsi la merce (id est dimostrando di aver pagato una somma di denaro). -
di conseguenza, una volta celebrati gli acquisti in danno, viene meno l’inadempimento, ossia il presupposto giuridico della risoluzione (per inadempimento) del contratto e, per l’effetto, viene meno anche la possibilità di chiedere la liquidazione del danno in base all’art. XIX commi n. 1 e 2 (=differenza prezzo da listino di borsa).
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Non è, infatti, possibile chiedere la risoluzione del contratto dopo aver ricevuto l’adempimento. Tale considerazione è pacificamente applicabile anche all’adempimento coattivo perchè esso è sempre “un fatto dovuto, ossia l’attuazione del rapporto obbligatorio”. Che l’acquisto in danno costituisca esecuzione (coattiva del contratto) è pacifico nella giurisprudenza citata supra.
In particolare, va sottolineata l’opinione di Pescatore, La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina, sub art. 1518 c.c., che, trattando di una fattispecie identica a quella qui in esame, scrive:
“…l’art. 1518 c.c., che detta una norma di favore per il risarcimento dei danni in caso di inadempimento di vendita di cose fungibili aventi prezzo corrente, rispetto alle regole generali dettate per l’inadempimento delle obbligazioni (art. 1223 ss c.c.), riguarda esclusivamente il risarcimento dovuto in caso di risoluzione della vendita per inadempimento e non trova materia di applicazione nel caso in cui si sia eseguito l’adempimento coattivo, e si invochi quindi unicamente l’applicazione dell’art. 1516 c.c. (cfr. Cass. 1740/1952, da cui l’affermazione è tratta testualmente).
In conclusione, anche senza la diretta applicazione degli artt. 1515-1516-1518 c.c. tramite l’art. 1374 c.c. il risarcimento del danno disciplinato dall’art. XIX delle cond.gen.contr. è soggetto ai principi e criteri dettati dal codice civile.
In altre parole, se viene richiesta la differenza prezzo con riferimento ai listini di borsa, il collegio arbitrale dovrà indicare con esattezza i prezzi ed i listini di riferimento, mentre se viene richiesta la differenza prezzo da acquisto in danno, il collegio arbitrale dovrà verificare l’effettiva esecuzione degli stessi, ossia l’effettivo esborso da parte del richiedente danneggiato, di una somma ulteriore rispetto a quella contrattualmente pattuita per procurarsi la merce nell’immediatezza dell’inadempimento del venditore.
e) la differenza prezzo come “penalità contrattuale”.
Altra interessante questione affrontata dalla sentenza in esame è la qualificazione della cd. differenza prezzo quale “penale contrattuale” ex art. 1382 c.c.
Parte compratrice aveva sollevato tale eccezione nel tentativo di rendere irrilevante la celebrazione degli acquisti in danno ai fini della quantificazione del risarcimento.
Ma anche tale argomentazione è stata respinta perchè l’art. XIX cond.gen.contr. non considera la “differenza prezzo” una prestazione cui è tenuto automaticamente il debitore in caso di inadempimento o di ritardo nell’inadempimento.
E ciò per la semplice ragione che, trattandosi di merce quotata su listini di borsa e/o fatta oggetto di acquisto/vendita in danno, la differenza prezzo può anche non sussistere.
Essa è, quindi, un normale risarcimento e non una penale la cui esistenza, debenza ed ammontare sono predeterminati sin dalla stipula del contratto.
E ciò è tanto vero che risulta necessario accertarne la sussistenza in sede arbitrale e/o contenziosa.
Pertanto, non è assolutamente possibile parlare di clausola penale.
Semplicemente, l’art. XIX delle cond.gen.contr., come gli artt. 1515-1516-1518 c.c. prevedono che l’inadempimento (colpevole) determini il diritto al risarcimento del danno subito, se esistente.
Quando opera la clausola penale, invece, all’inadempimento segue automaticamente il pagamento del risarcimento nella misura prestabilita. Ossia, non è necessario effettuare nessuna valutazione quanto all’esistenza del danno e/o alla misura dello stesso (cfr. Cass. 5677/1981, n. 11204/1998).
Inoltre, oggetto della penale contrattuale è, secondo l’art. 1382 c.c., “una prestazione determinata”.
Dottrina e la giurisprudenza precisano che si tratta “dell’obbligo di pagare una determinata quantità di denaro in misura invariabile” (cfr. Cass. n. 851/1954, n. 3504/1955, n. 3648/1956, n. 3789/1981, n. 6995/1983, n. 5122/1985, n. 2468/1988, n. SU 4126/1995, n. 6356/1996, n. 2941/1999, n. 625/2003).
L’uso della parola “ determinata” esclude che la penale, a differenza della differenza prezzo, possa essere quantificata solo al momento della sua escussione.
La differenza prezzo, infatti, è sempre somma “determinabile”, mai determinata.
Inoltre, dottrina e giurisprudenza sono concordi nel considerare la penale un debito di valuta (cfr. Cass. 3789/1981, SU 4126/1995, 977/1999), mentre la differenza prezzo, che è un risarcimento da quantificare è pacificamente un debito di valore.
Inoltre, la penale contrattuale può essere equitativamente ridotta (ex art. 1384 c.c.), mentre la differenza prezzo ex art. 1518 c.c. è frutto di una presunzione legale e quella ex artt. 1515/1516 c.c. coincide con l’effettivo esborso subito dalla parte per procurarsi la merce aliunde e, quindi, con il danno conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento.
Pertanto, la differenza prezzo non può – in nessun caso – essere ridotta equitativamente.
Ne è conferma anche l’art. XIX cond. gen. contr. qui in esame.
Infine, l’art. 1383 c.c. vieta il cumulo tra la domanda di adempimento della prestazione principale e quella di pagamento della penale, salva l’ipotesi che quest’ultima sia pattuita per il mero ritardo. Nel caso di specie, con la celebrazione degli acquisti in danno la compratrice ha chiesto (ed asseritamente ottenuto) l’adempimento coattivo della prestazione principale e, quindi, non poteva agire per ottenere anche il pagamento della penale (ma solo per accertare ed ottenere il risarcimento del danno).
L’avv. Rebellato ha patrocinato le ragioni della venditrice tanto in sede arbitrale che contenziosa.